
Chiedo lumi alla mia assenza.
A un passo dalla verità
il meccanismo infallibile
di cambi, d’abito e di parole.
Ancora mi diverto a dondolare
sopra i tacchi immaginando
un copione a Earl’s Court, la mia isola.
Ho dato il mio frutto al mondo
non è stato facile
la notte vigilo ed il giorno
è una pena insopportabile.
Non posso legarmi più di un mese
senza avvertire la morsa della solitudine,
prima di uscire penso mille volte
al cielo fuori dalla mia casa
e ho paura di ascendere, di non reggere.
So che se avrò fortuna perderò il treno
o farò tardi all’appuntamento
e avrò un motivo per non sopportarmi.
Ho sempre abortito ogni grumo di vita
i miei sono embrioni non esseri
atomi di folla, persone in vitro
niente di compiuto da dichiarare.
Solo la tensione dell’attesa, il contatto,
quello fatale che incatena l’anima
poi la fuga dolorosa e scalza
come nei sogni ad occhi aperti.
La cura apparente della persona
il culto raffinato dell’incerto e del vago
sforzarsi di non provare nausea
ricambiare sorrisi con suppliche
tentativi disperati di apparire candida.
In realtà sono troppi gli spiriti che mi circondano
ed a ognuno mi sono promessa:
a quelli che non sanno che esiste il vortice
a quelli malati che vorrebbero una scala
per essere inseriti nella corte di Lucifero
figure esili in cerca di un dramma solido.
Una specie di Santeria governata da draghi e vergini
ma sono sola a domare il circo tragico
del senso di colpa atavico, stretto come una dote
e le figurazioni che crollano dall’alto
come pezzi di vetro che si schiantano e feriscono
un corpo che si immagina immortale.
Rimane incagliato al largo del mare gelido
con i cristalli tra le ciglia, sui polsi, sulle natiche,
cammina e sanguina come la sirena di Andersen.
Antonella Rizzo