La mia lettura di “Tutto così regolare tutto così prevedibile” di Claudio Giovanardi
È in libreria l’ultimo libro di narrativa di Claudio Giovanardi “Tutto così regolare, tutto così prevedibile”, una serie di racconti per la casa editrice Manni che segue di due anni la pubblicazione di “Mamma ricordi” per le stesse edizioni. Giovanardi è un intellettuale romano, Professore Ordinario di Linguistica Italiana presso l’Università Roma Tre, ateneo della capitale. Ha al suo attivo decine di pubblicazioni accademiche sulla lingua italiana e tiene conferenze nelle sedi culturali più prestigiose in Italia e all’estero.
Il volume supera brillantemente il confronto con la precedente pubblicazione, nonostante la differenza dell’impianto narrativo e la caratteristica di aulicità che connota invece “Mamma ricordi”. Anche in questo caso il lettore può comprendere empiricamente la linea di demarcazione tra una pubblicazione di facile successo editoriale e un’opera di Letteratura vera e propria. Si ritrova, qualità sempre più dismessa, il segno distintivo dello scrittore di razza che sa tracciare con intensità anche scenari di ordinaria amministrazione: verità conclamate, incertezze cosmiche, tentativi di fuga, sentimenti profondissimi, disincanto. Tutto ciò che lo scibile umano per una volta si trova ad affrontare è racchiuso in parole-gioiello, costruzioni perfette ma fuori dalla rigidità del purista. Un lavoratore accademico atipico definirei lo scrittore, colui che non immagazzina concetti cattedratici ma che vive una dimensione sociale di testa, carne e sangue, come un organismo animale che si riproduce attraverso il rilascio delle conoscenze: questa è la Cultura.
Rischio la retorica affermando che è facile commuoversi durante la lettura ma non è il sentimento a basso prezzo che inchioda il raziocinio ma il paradosso continuo, tenero e letale della quotidianità, i desideri abortiti, la pantomima dell’assurdo, la felicità felliniana e giostraia che fanno precipitare le inibizioni e ci procurano quel sottile e piacevole ennui che tanto occorre a farci sentire vivi.
Si percepisce la sensazione dell’assenza di un tempo cronologico nelle descrizioni, nulla è prima o dopo ma gli avvenimenti sembrano frutto di una inevitabile e rassegnata sincronicità degli eventi che si rivelano invece di manifestarsi. Tutto questo grazie al ritmo equamente ripartito dei periodi cesellati ad arte che mantengono in questo modo costante la tensione narrativa anche in assenza di dialoghi. La parola si fa estetica della vita in tutta la sua potenza medianica ed assolve il suo compito privilegiato: quello di evocare, curandera dei nostri giorni, la Bellezza in una dimensione esistenziale laica altrimenti priva di senso.
Un costrutto sostenuto da un’abilità scontata per le competenze del romanziere ma sorprendente per la profondità dell’uomo, che si rivela in uno specchio lacaniano senza connotazione di bene e di male ma piuttosto nella sensualità dell’animale notturno che trasgredisce per coerenza al proprio destino biologico, quindi senza traccia di colpevolezza. L’infanzia, una goccia d’acqua persecutoriamente kafkiana, la donna e uno stralcio di cielo, tutto rappresenta la speranza e nel contempo il rifiuto aristocratico del vivere quotidiano: una dimensione autentica e struggente preclusa agli occhi curiosi della folla che non si accorge della complessità dell’anima e crede che tutto sia così regolare, così prevedibile.
Uno dei libri migliori che io abbia letto.
Antonella Rizzo
Alla volta di Leucade: M. Grazia Ferraris su Inediti di Antonella Rizzo

La poetessa si muove con potente abilità nel gioco dell’invenzione linguistica e delle metafore che diventano spesso simboli, voci musicali, di sapiente consapevolezza anche evocativa e perfino di espressività teatrale.
Che cosa è mai la poesia?, chi è mai il poeta? si chiede Antonella Rizzo in Ex-voto.
La domanda intrigante di sempre. La nostra poetessa prova a dircelo con linguaggio mite di preghiera, come quello del graziato in veste da penitente che porta il suo ex-voto di ringraziamento: un canestro di verbi nuovi,… aspettando il giorno. Ricerca e fiducia. Si accoda agli altri il poeta, ne condivide dolorosamente “godendo” l’umanità piangente, i mali nascosti… ma, Avvoltoio e Cerbero, (o immagini di potente efficacia e di lacerante sincerità!), sfida i giorni e la quotidianità feroce che, novella opera da lanzichenecco prevaricante prezzolato e servo, languidamente conforta.
Un’ispirazione poetica la sua fortemente legata alla dimensione spirituale, naturaliter religiosa: lo conferma in Una cattedrale gotica, dove presta in prima persona la voce di riflessione alla stessa opera, la cattedrale potente e solenne, testimonianza di fede, inconsapevole di essere tutta guglie e pinnacoli ed archi rampanti, che nascondono dietro la rabbiosa forza le debolezze e gli incubi mascherati: un incentivo, un invito a lasciare definitivamente ogni orpello o pinnacolo, protesi o bastone di supporto e camminare lungo la mia strada/ senza protesi armate dal bisogno /di decolli e di ali.
Conferma la sua vena etica nella ricerca dell’immobilità di contro alle immagini – celesti ardimentose e complici – volatili, del Tempo, metafora del nostro vivere violento, che ha mani tenaci/ e pelle di salamandra.
Abbiamo bisogno più che di un medico di un curandero… per slegare l’anima dalla catena…che ci tolga, col disincanto, dalle nostre malate ossessioni riconquistando la nudità e la verità.
Maria Grazia Ferraris
Una cattedrale gotica
così mi hai chiamata
portando la mano al petto
e al cielo.
Che mi perdo tra le nebbie
e ho coscienza della morte solenne
già lo sapevo ed annuivo.
Immaginavo e non sapevo
di essere di guglie
e di pinnacoli
di archi a sesto acuto
che scaricano la rabbia in voli
e ritorni in cappelline
abitate da incubi notturni.
E sono allora arzigogoli di vetro
i battiti veloci di un cuore
che si lancia senza precauzioni
da volte pungenti e distaccate
algide presenze
umili e regali.
Ora penso di gettare quel batocchio
e camminare lungo la mia strada
senza protesi armate dal bisogno
di decolli e di ali.
Sono qua
ad aspettare il giorno
con un canestro di verbi nuovi.
Il poeta, o chi conduce il tempo
è avvoltoio e Cerbero.
S’accoda all’umanità piangente
gode dei languori mai narrati
similitudini tra mali,
al lavoro alacre dei Pastori
nei lanzichenecchi globali
dei nostri giorni.
Rendimi immobile
all’ardimento degli orizzonti
e alle nebulose complici.
Il tempo mio è violento
ha mani tenaci
e pelle di salamandra.
Un curandero bianco
slega l’anima dalla catena
mutando in disincanto
i nudi degli Eroi.
Antonella Rizzo su “Basterebbe il cielo” di Ugo Capezzali – Zona contemporanea Edizioni
Ho incontrato la poesia di Ugo Capezzali in occasione di un reading a L’Aquila. Ho percepito immediatamente la sensibilità ruvida dei suoi versi inusuali, a parer mio, nei poeti della sua generazione. Conoscendo meglio la sua storia artistica, svelata dai gesti e dal physique du role di un giovane attore contaminato da influenze di un passato relativamente remoto, la struttura poetica potente e suggestiva è apparsa ancor più chiara e comprensibile nella sua efficacia. Il tratto lapidario e fiero di una scrittura ricca di personalità e di forza, composta nei versi intimi e privati ma sfacciata nell’affermazione di un manifesto ideologico tra trasgressione e valori primitivi.
“Nella vita che resta / si nasce / ogni volta / che si attraversa la strada.” E’ per la strada, come Kerouac direbbe, che ci si imbatte nella vita. Difficile trovare questo dualismo nella poesia odierna spesso cristallina negli intenti ma vuota di potenza individuale, o talmente esistenzialista da risultare egocentrata. Ma lo stile rimane intatto e attraversa il sottosuolo con un tratto estetico che scongiura il rischio di collocare l’immagine poetica in gabbie di impronta sociologica.
Pervasi da una dolcezza appena sussurrata sono i versi che parlano di sentimento, con giochi ed assonanze che rivelano il dualismo costante di un’emotività in bilico tra quiete e belligeranza, gesti che riportano a suggestioni d’antan “Sei qui / ma sai farti vento”.
“Dovevo uscire da qui / e tornare / a dove ero nudo” è il bisogno insopprimibile di valicare il confine della decenza formale di una maturità gestita solo in parte dalla razionalità, al quale Ugo Capezzali risponde con una vitalità esplosiva come il suo rock e le vie della sua città, misterica e quiscente, sembrano rispondere al grido di battaglia di Joe Strummer con “The guns of Brixton”. Ci vuole talento per decidere di essere tutto e il contrario di tutto.
Antonella Rizzo